Il virus che tiene in scacco il mondo da diversi mesi è arrivato del tutto inaspettato. Ci ha trovato preparati? È certo che la pandemia è un evento che ha messo tutti alla prova.
Rispetto alla capacità di vedere e di agire, Matteo (7,24-27) usa le immagini che conosciamo bene: una casa costruita sulla roccia e una costruita sulla sabbia. “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia”. Invece la casa sulla sabbia “cadde e la sua rovina fu grande”.
Ecco, in questi mesi possiamo vedere se il nostro piccolo mondo è fondato sulla roccia o sulla sabbia. Se guardo alla comunità cristiana, essa ha continuato a vivere là dove le dimensioni dell’annuncio e della liturgia erano fondate sulla roccia dell’amore gratuito e del servizio al prossimo. E spesso, durante il lockdown, il servizio ai fratelli e alle sorelle è stato il nostro annuncio e la nostra celebrazione vera dell’amore a cui ogni uomo è chiamato se vuole che la sua vita abbia un senso.
Niente sarà più come prima? Ciò che era inutile e falso è stato spazzato via e ciò che era solido sarà ancora come prima e più di prima.
Più di prima ma in modo rinnovato in base a due criteri. Il primo, che riguarda le singole persone, ma anche le organizzazioni, le comunità, le istituzioni si chiama “resilienza”. Resilienza è la capacità di attraversare periodi avversi, di reagire a traumi e ferite, riorganizzando la propria vita in senso positivo, crescendo e mantenendo la rotta. È compito della Caritas promuovere la resilienza nelle persone e nella comunità. La crisi sanitaria di COVID-19 ci ha mostrato quanto ciò sia vitale.
Il secondo criterio è quello della “sostenibilità”. Qui sì, è necessario che molto di ciò che c’era prima cambi in modo radicale. Lo sappiamo da molto tempo, ma la pandemia ce lo ha ricordato a volte in modo tragico. Il cosiddetto “sviluppo” deve essere “sostenibile”. Non possiamo utilizzare e consumare più di ciò che la terra può dare. Ciò che usiamo in più è un abuso e un furto ai danni di chi verrà dopo di noi.
Dove la società non è resiliente e lo sviluppo non è sostenibile, si fa strada ciò che papa Francesco chiama “cultura dello scarto”. “Una società merita la qualifica di ‘civile’ se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza”.
Una forma di “scarto” che abbiamo vissuto nei mesi passati è la solitudine di tante persone. Di chi è rimasto solo a casa, di chi non ha più ricevuto visite da amici e parenti, di chi è morto senza l’abbraccio e nemmeno lo sguardo di una persona cara.
C’è anche la “cultura del rinvio”. Ricorda un po’ quanto si dice nella lettera di Giacomo a proposito della necessità di una fede che si esprima in opere. “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: ‘Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi’, ma non date loro il necessario per il corpo [oppure dite: ‘torna dopo il lockdown’], a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta”.
Il virus ci ha insegnato dunque molte cose affinché almeno qualcosa non sia più come prima: la capacità di resistere cambiando (perché abbiamo costruito la nostra casa sulla roccia); la consapevolezza di non usare i beni che appartengono ai nostri figli e nipoti (nello stile di uno sviluppo sostenibile); il rifiuto di una società che produce scarti umani (dai bimbi non nati a quelli sbattuti sulle spiagge del Mediterraneo, dai malati terminali alle persone lasciate sole, da chi non ha i mezzi materiali per vivere a chi ha perso il senso stesso della vita). E la necessità di tendere subito, e non domani, la nostra mano al povero.
Paolo Valente, direttore Caritas Bolzano-Bressanone
(da: Caritas, luglio 2020)